La parola danzante - Dialoghi psicoanalitici con la danza.

Uno psicoanalista è consapevole che se osserva, pensa e scrive di danza ciò può accadere perché ha il desiderio di danzare e, per qualche ragione, questo desiderio è conflittuale. Le pulsioni che alimentano questo desiderio subiscono, allora, delle trasformazioni, di modo che a danzare siano i pensieri e le parole, cose che certamente gli sono più familiari. Le pulsioni libidiche, l’Eros, tendono ad unire, combinare, generare e non v’è dubbio che esse siano il motore di questi Dialoghi psicoanalitici con la danza: fertilizzare il pensiero psicoanalitico con la danza e, perché no, la danza con nuovi pensieri.

Questi Dialoghi prendono avvio nel corso degli spettacoli domenicali della rassegna di danza contemporanea "Donna Creatrice" Scenario Danza 13/14, a Catania presso Scenario Pubblico, spettacoli al termine dei quali viene fatto seguire un dibattito tra il pubblico, gli autori e i danzatori. Questi ultimi trovano, probabilmente, la “danza parlata” di questi dibattiti tanto conflittuale quanto può esserlo per lo psicanalista esprimersi attraverso la danza. Nel loro caso, le cariche pulsionali trovano nel movimento del corpo una scarica immediata, priva cioè della mediazione della parola. È questa immediatezza che consente alla danza di inondarci di emozioni che attraversano con rapidità la quarta parete.

Al contrario, la parola ha un ruolo centrale nella psicoanalisi, sia essa intesa come corpus teorico o come cura. In quest’ultima accezione, la parola cercata è la “parola dell’inconscio” e la tecnica usata è quella delle libere associazioni. Il dibattito con il pubblico viene utilizzato come una serie di libere associazioni stimolate dalla performance coreutica. La danza assume, quindi, la valenza di testo polisemico a partire dal quale è forse possibile ri-costruire un ordito di “sensi” e di significati sul quale possiamo veder apparire la trama della contemporaneità. Questi Dialoghi partono quindi dal “senso” come elemento della corporeità (del danzatore e dello spettatore) per approdare al “senso” inteso come prodotto della psiche.

Il primo Dialogo riguarda la performance "Anticorpi" di Roberto Zappalà, eseguita dalla Compagnia Zappalà Danza l'otto dicembre 2013.

La parola danzante #1 - Anticorpi: la vita tra “rivoluzione paterna” ed “evoluzione materna”.

Se la morte non fosse necessaria, Anticorpi sarebbe una narrazione che potrebbe non avere mai termine. Ciò che vive deve poter morire e il ripetersi circolare del nascere e del morire è il fondamento stesso del ritmo.

Da principio si dà il contenitore della vita, privo di qualsiasi contenuto e colmo di potenzialità. Se Anticorpi fosse una narrazione letteraria, questo principio sarebbe una pagina bianca. La danza richiede uno spazio almeno tridimensionale e, allora, la pagina bianca si piega fino a trasformarsi nel parallelepipedo del palcoscenico, bianco, nitido, lunare, lattiginoso, potenziale. All’inizio, quindi, è data una madre, la donna creatrice arcaica che dà nome alla rassegna di danza di cui Anticorpi fa parte. La scena nebulosa si illumina per alcuni secondi, quanto basta perché la visione dell’intimità materna non diventi o-scena, per poi tornare nell’oscurità.

Solo ciò che è oscuro può essere penetrato e un raggio di luce ritaglia un posto nel buio umido e vibrante della scena, inaugurando l’era del padre. Il ventre fertile del palcoscenico accoglie la comparsa, in un solo movimento, del pene che feconda, dell’uomo, del padre che diversifica, del figlio che nasce, del fratello che chiama gli altri fratelli. Vestito della propria nudità, un danzatore penetra l’oscurità e chiama a raccolta i figli della Patria-Madre. Si tratta di una chiamata rivoluzionaria, sulle note e le parole della Marsigliese (la lingua straniera è come il linguaggio paterno, che rompe l’ordine matriarcale arcaico e inaugura la dialettica degli opposti, maschile/femminile prima di tutti gli altri). Il silenzio viene allora trasformato in uno schioccare di vita, l’oscurità in un brulicare in penombra di corpi nudi. Una cellula, due cellule, quattro, otto, una moltitudine di cellule-bambini che abbandonano l’iniziale totipotenza staminale in favore dell’emergere progressivo dell’individualità. Ogni danzatore fa perno su una specifica parte del corpo (la testa, le ginocchia, i piedi), ne indaga le possibilità, i movimenti, i limiti. L’emergere delle individualità si accompagna alla tensione verso l’unisono gruppale: nel realizzarsi del soggetto individuale si costruisce, allo stesso momento, un soggetto gruppale. Man mano che ciascun danzatore si appropria del proprio perno, del proprio movimento peculiare, si sintonizza progressivamente con gli altri, tendendo ad un unisono che non si realizza mai del tutto.

In Anticorpi non c’è l’unisono assoluto delle parate totalitarie, ma l’integrazione imperfetta delle differenze. Come il corpo funziona come una gruppalità integrata, così la psiche individuale emerge all’unisono con una gruppalità psichica: l’Io è un gruppo. Il gruppo-organismo fonda l’idea dell’appartenenza che si realizza nell’apprendimento prima e nel superamento poi della lingua paterna (il francese della Marsigliese) e di quella materna (uno scioglilingua in dialetto siciliano), per trovare un linguaggio che sia il precipitato di entrambe, nuovo e antico nello stesso momento. La tribù di anticorpi-bambini si ritrova a danzare all’unisono, come un cuore pulsante, al ritmo dei tamburi scandito dalla parola SOUTH. Ciascun danzatore ha messo la propria individualità, espressa dal proprio peculiare perno nel corpo e dai relativi gesti, in sintonia creativa con gli altri, in risonanza corporea ed emotiva con il gruppo. Il gruppo-organismo ha metabolizzato la lingua materna e paterna e ha trovato una propria lingua originale, che parla inglese ma parla di Sud. I danzatori, di tanto in tanto, puntano il dito verso uno spettatore, perché la nuova lingua possa riguardarlo, contagiarlo, appartenergli.

Anticorpi si conclude e “muore” là dove prende avvio la vita extrascenica ed extrauterina di una nuova generazione. Non si tratta, però, solo dell’esito fausto di un’attesa messianica che, con un movimento verticale, anela a porre in alto ciò che sta in basso, a riscattare il Sud come luogo metaforico degli oppressi; né si tratta soltanto di un movimento orizzontale che parla ai fratelli e opera per contagio. La nuova idea, la nuova generazione prende vita all’intersezione tra un movimento verticale paterno, garante responsabile di una possibilità rivoluzionaria (cambiamento radicale), e un movimento orizzontale materno, garante responsabile di una possibilità di evoluzione (crescita armonica).
ph. Alfredo Anceschi