La parola danzante #2 - Madness of the gods: le vicissitudini del desiderio.


Il desiderio è simile alla memoria in quanto ambedue hanno uno sfondo di impressioni sensoriali.
Ma il desiderio si riferisce a ciò che si sente di non possedere; esso è “insaturo”.
W. R. Bion, Attenzione e interpretazione, 1970.

Buio in sala. Si ode il frusciare dei corpi sulle sedie, alla ricerca degli ultimi accomodamenti. Un colpo di tosse. Un bisbiglio. Il silenzio.

Un lampo di luce stroboscopica rivela la presenza di un corpo, che il lampo successivo fa apparire in un altro punto della scena. Altri lampi mostrano che i corpi sono due, che si muovono e che si denudano. Dopo ogni lampo, quando il palcoscenico ripiomba nel buio, continuo a vedere, per alcuni secondi, i danzatori nell’ultima posizione che la luce ha impresso sulla mia retina. Il lampo successivo tradisce le mie aspettative: il danzatore non è più lì dove continuavo a vederlo nel buio, ma da un’altra parte, in un’altra posizione e con un aspetto diverso. Sono sorpreso, divertito e disturbato allo stesso momento, come quando sull’otto volante l’ebbrezza della velocità si mescola alla nausea dello stordimento.

L’immagine del danzatore persiste nella mia psiche perché la violenza dell’illuminazione, combinata con la sua rapidità, stimola la retina, per qualche istante, ad inviare scariche elettriche alla corteccia visiva. Non si tratta della persistenza di un ricordo, ma della persistenza di una percezione. Eppure desidero ritrovare il danzatore lì dove la mia psiche mi illude che sia, desidero provare il piacere di una percezione continua che non generi un conflitto con la mia esperienza passata. Negli anni ’30 del secolo scorso, Max Wertheimer indicò i principi di unificazione formale ovvero quei principi psicologici in base ai quali si organizza la realtà fenomenica. Uno dei fattori che organizza la nostra percezione delle immagini è proprio il fatto che siano familiari, che ne abbiamo fatto esperienza nel tempo passato.

Nel foglio di sala che introduce lo spettacolo, Daniela Bendini e Moritz Ostruschnjak, danzatori, registi e coreografi di Madness of the gods, si chiedono da dove provenga il desiderio. Possiamo affermare che il desiderio viene dal passato o, più precisamente, che esso è ancorato alle tracce mnestiche delle esperienze sensuali (cioè dei sensi) passate. L’immagine dei danzatori che persiste sulla retina agisce nello stesso modo del ricordo di un’esperienza gratificante di soddisfacimento sensuale: il desiderio di ripeterla e di ritrovare l’oggetto con cui si è avuta o un suo sostituto. Il desiderio è, quindi, tensione al ri-trovamento di un oggetto, sia nel mondo esterno sotto la forma di ricerca dell’oggetto, che nel mondo interno come allucinazione dell’oggetto. Quest’ultima è ciò che presiede alla formazione del sogno notturno, così come a quella del sogno a occhi aperti.

Madness of the gods è una rappresentazione della dinamica del desiderio che non si limita a narrarne le vicissitudini, ma che chiama in causa lo spettatore, in prima persona, stimolandone i sensi attraverso la messa in scena del buio e della luce, del corpo vestito e del corpo nudo, del ri-trovamento e della perdita. Allo spettatore tocca di allucinare l’immagine del danzatore, dove egli in verità non è più, prima per dare coerenza e significato a ciò che sta vedendo tra un lampo e l’altro, poi per ri-trovare il piacere sensuale del corpo nudo. Il corpo dei danzatori è vestito di nudo. Si tratta, infatti, di un costume di scena che rappresenta l’originario contatto pelle a pelle di cui quello tra madre e neonato è il prototipo inaugurale. Il costume della nudità mette in scena ciò che sarebbe altrimenti irrappresentabile, ovvero una condizione di narcisismo fondamentale, primario in cui Io e Mondo coincidono, in cui il desiderio è preceduto dalla sua soddisfazione, in cui non c’è mancanza. Si tratta di una condizione presente in molti miti, tra cui quello dell’Eden e quello dell’androgino del Simposio di Platone. Nel corso del dibattito che è seguito allo spettacolo, uno spettatore ha criticato l’utilizzo del costume della nudità, indicando nella presunta naturalezza della nudità una condizione perduta e non riconquistabile, allo stesso modo in cui sono perduti e non riconquistabili il paradiso terrestre o l’unità androgina. Insomma, l’innocenza è perduta nello stesso momento in cui appare una facoltà desiderante che si alimenta non solo di pulsioni sessuali ma anche di pulsioni aggressive di appropriazione. Quando Adamo ed Eva si nutrono dei frutti dell’Albero-della-conoscenza-del-Bene-e-del-Male, così come quando gli androgini minacciano l’Olimpo con la loro potenza tracotante, ecco che un Dio-Padre invia la punizione che divide, taglia, separa, limita: nel primo caso con la cacciata dall’Eden, nel secondo con la separazione della parte maschile da quella femminile dell’androgino. In entrambi i casi si tratta della perdita dell’originaria fusionalità con la madre e dell’onnipotenza primaria. Questa perdita – un lutto originario, per dirla con Racamier – inaugura il soggetto desiderante che si avventura dapprima lungo il sentiero dell’allucinazione di ciò che gli manca e poi si attiva nella ricerca nel mondo dei propri oggetti del desiderio.

Si tratta di un’avventura perigliosa, in cui la posta in gioco è “ritrovarsi per la testa” o “perdere la testa”. I lampi di Zeus dividono in due l’androgino; i due danzatori si trovano, separati, nudi e si conoscono, si intrecciano nel tentativo di ritornare alla precedente condizione di fusione perfetta; il tentativo è destinato a fallire e inizia la danza del desiderio, una danza fatta di corse e inseguimenti, di cadute, di brevi ritrovamenti all’unisono, di nuove perdite. Infine, i due danzatori si ri-trovano letteralmente testa a testa, uniti da un desiderio che non è saturabile attraverso la sensualità, pena la sua stessa fine. Esso deve poter tornare insaturo per esistere come desiderio e non trasformarsi in memoria. In Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes cita Jaques Lacan e, parlando di “unione” scrive: “il desiderio, è di mancare di ciò che si ha – e di dare ciò che non si ha: questione di supplemento, non di complemento”.
ph. Jubal Battisti